L’INSEGNAMENTO
Il Buddha sorse dalla meditazione duemilacinquecento anni fa dopo aver
raggiunto l’illuminazione. Il soggetto del suo primo insegnamento furono le
Quattro Nobili Verità. La Prima Nobile Verità fu la verità della sofferenza, il
fatto che la nostra felicità costantemente trapassi. Tutto ciò che abbiamo è
soggetto a impermanenza. Nulla di ciò che comunemente pensiamo come reale è
permanente. L’ignoranza, l’attaccamento e l’ira sono le cause del nostro
incessante soffrire. La Seconda Nobile Verità è quindi comprendere questa causa
di sofferenza. Quando si elimina la radice della sofferenza (le illusioni), si
raggiunge uno stato di cessazione della sofferenza – la Terza Nobile Verità, o
nirvana. La Quarta Nobile Verità è che esiste un sentiero che conduce alla
cessazione della sofferenza. Per poter raggiungere tale stato entro la propria
mente, si deve seguire un sentiero.
È solo quando comprendiamo la legge del karma, o causa ed effetto, che
siamo ispirati ad affrontare il sentiero che pone fine alla sofferenza. Pensieri e
azioni negativi producono risultati e condizioni negativi, così come pensieri e
azioni positivi producono risultati e condizioni positivi. Quando avremo
sviluppato una profonda convinzione nella legge di causa ed effetto, saremo
capaci di percepire le cause e le condizioni delle nostre proprie sofferenze. La
nostra felicità o infelicità presente non è nient’altro che il risultato delle nostre
azioni precedenti. Le sofferenze sono di per sé così evidenti che è la nostra
esperienza stessa a testimoniarne l’esistenza. Comprenderemo quindi con
chiarezza che se non desideriamo la sofferenza, dovremmo sforzarci di
sradicarne le cause adesso. Attraverso la comprensione della sofferenza e delle
sue origini possiamo percepire la possibilità di eliminare l’ignoranza, che è la
causa principale della sofferenza, e possiamo concepire uno stato di cessazione,
una totale cessazione di tale ignoranza e delle illusioni da essa indotte. Quando
la nostra comprensione della cessazione sarà perfetta, si svilupperà un desiderio
forte e spontaneo di raggiungere un simile stato. E sarà comprensione così
profonda da scuoterci in tutto il nostro essere e indurre in noi un desiderio
spontaneo di ottenerla. Una volta che si è sviluppato in noi il desiderio spontaneo
di raggiungere la cessazione, si svilupperà anche un immenso apprezzamento per
gli esseri che nella loro mente l’hanno realizzata. Il riconoscimento delle qualità
raggiunte dal Buddha diviene potente. I benefici e la bellezza dei suoi
insegnamenti divengono chiari.
L’insegnamento dei gradi del sentiero verso l’illuminazione giunse in Tibet
dall’India. Il Buddhismo non giunse in Tibet sino all’VIII secolo, ma già nel IX il
re Lang-dar-ma ne mise fuori legge la pratica. Così come hanno fatto nel nostro
tempo i Cinesi, chiuse i monasteri che erano stati i centri primari degli
insegnamenti. La distruzione del Buddhismo operata da Lang-dar-ma fu assai
estesa, ma fu ancora possibile praticarlo in regioni remote, e la tradizione fu
preservata. Nell’XI secolo, vi fu un periodo di confusione circa due concezioni
diverse della pratica degli insegnamenti. C’era il sutra, o sentiero dello studio e
della pratica tramite i quali dopo molte vite si raggiunge l’illuminazione, e il
tantra, o pratiche segrete tramite le quali l’illuminazione può essere raggiunta nel
corso di una sola vita. Nell’XI secolo, un monaco indiano di nome Atisha
divenne famoso per la sua capacità di spiegare gli insegnamenti del Buddha e
difenderli in dibattiti con filosofi non buddhisti. Egli riuscì a riunificare tutte le
diverse posizioni filosofiche buddhiste che si erano sviluppate nel corso dei
secoli, oltre che i sistemi laici e quelli monastici della pratica. Fu considerato
come un maestro autorevole e non partigiano da tutte le scuole filosofiche.
A quell’epoca, il re del Tibet occidentale, ispirato dalla grande fede buddhista
dei suoi antenati, lesse molti testi e scoprì quelle che a suo giudizio erano
contraddizioni tra i diversi sistemi, soprattutto tra sutra e tantra. Molti tibetani, a
quell’epoca, a causa di un fraintendimento circa il ruolo dell’etica nei due
sistemi, ritenevano che le pratiche sutra e tantra non potessero essere intraprese
da una stessa persona. Eppure il re era consapevole che quando il Buddhismo era
arrivato in Tibet nell’VIII secolo, i due sistemi coesistevano pacificamente. Il
maestro indiano Shantarakshita aveva diffuso sia la pratica della disciplina
monastica sia le vaste e compassionevoli pratiche sutra. In quello stesso tempo,
il grande yogi Padmasambhava stava diffondendo le pratiche tantra e domava le
forze malevole che affliggevano il Tibet. Questi due maestri intrapresero le
pratiche del Dharma insieme, senza alcuna ostilità tra loro. Avendo compreso
che l’India era la fonte delle pratiche sutra e tantra, il re mandò venti studiosi
intelligenti con l’idea che sarebbero tornati a purificare gli insegnamenti per i
Tibetani. Molti di loro morirono per via, ma due tornarono e riferirono al re che
in India sutra e tantra venivano praticati senza che sorgessero difficoltà tra essi.
Al monastero di Vikramashila, in Bengala, i due studiosi incontrarono il grande
maestro Atisha. Costui, ne furono certi, sarà colui che potrà aiutare il Tibet.
Il re si mise in cerca dell’oro necessario a pagare le spese per invitare il
maestro dall’India, ma fu catturato da un re che era ostile al Buddhismo. Gli fu
data la scelta tra la vita e la ricerca del Dharma. Quando si rifiutò di rinunciare
alla sua ricerca, fu imprigionato. Il nipote cercò di liberarlo, ma il re disse: «Non
ti devi preoccupare di me. Non sprecare una sola moneta d’oro per il mio
riscatto. Usa tutto l’oro per invitare Atisha a venire dall’India». Il nipote non
obbedì allo zio e alla fine offrì in riscatto l’equivalente in oro del peso del re. Ma
il rapitore rifiutò, dicendo che il nipote aveva recato oro in quantità uguale al
peso del corpo dello zio, ma non abbastanza per la testa. Rifiutò di liberare il
prigioniero finché questi non avesse portato più oro. Il nipote disse allora allo zio
ciò che era accaduto. «Se inizio una guerra per liberarti» spiegò il nipote «ci sarà
gran spargimento di sangue. Cercherò quindi di raccogliere l’oro per la tua testa.
Prega, ti supplico, che io ci riesca.» Lo zio rispose: «È mio desiderio portare la
luce del Dharma al Tibet così che tutti i dubbi e le contraddizioni siano chiariti.
Se il mio desiderio è esaudito, anche se dovrò morire qui, non avrò rimpianti.
Sono vecchio. Prima o poi dovrò morire. In molte vite ho avuto rinascita, ma è
assai raro che io sia stato capace di sacrificare la mia vita per il bene del Dharma.
Oggi mi viene offerta questa opportunità. Manda dunque un messaggio ad
Atisha dicendogli che io ho dato la mia vita affinché lui possa essere invitato in
Tibet, e che il mio ultimo desiderio è che egli venga in Tibet e diffonda il
messaggio del Buddha e chiarisca i nostri fraintendimenti». Udendo la fermezza
dello zio, il nipote fu profondamente commosso. Con tremenda tristezza, si
congedò da lui.
Il nipote mandò un gruppo di traduttori tibetani in India alla ricerca di Atisha.
I sei compagni, che recavano con sé settecento monete d’oro, giunsero alla fine
al monastero di Atisha, dove furono condotti a incontrare l’abate. Pur non
avendo essi rivelato lo scopo che li aveva condotti, l’abate disse loro: «Non è
che io sia possessivo verso Atisha, ma ci sono pochissimi maestri come lui, e se
dovesse lasciare l’India, ciò sarebbe un gran pericolo per il Dharma stesso e
quindi per l’intera cittadinanza. La sua presenza in India è molto importante».
Un traduttore tibetano riuscì alla fine a incontrare Atisha, e gli occhi gli si
riempirono di lacrime. Atisha se ne accorse e disse: «Non ti preoccupare.
Conosco il grande sacrificio che il re tibetano ha fatto per me. Considero
seriamente la sua richiesta, ma sono vecchio e ho anche la responsabilità di
prendermi cura del monastero». Ma alla fine Atisha acconsentì a venire in Tibet.
Dopo il suo arrivo nel Tibet occidentale, gli fu richiesto dal nipote del re di
comporre un testo che potesse arricchire l’intero insegnameno buddhista in
Tibet. E così ci ha lasciato La lampada del sentiero dell’illuminazione, che
condensa tutti i sentieri essenziali, tratti dall’intero corpus degli insegnamenti, in
una forma adatta ai bisogni reali del popolo tibetano.
Agli inizi del XV secolo, il maestro tibetano Tsong-kha-pa scrisse un libro
intitolato Lam-rim, o Gradi del sentiero dell’illuminazione. In esso sviluppava
l’esposizione di Atisha e rendeva più accessibili gli insegnamenti, integrandoli
tra loro, così che chiunque potesse praticarli. Il Lam-rim è la base
dell’insegnamento contenuto in questo libro.
Esponendo tutti i gradi del sentiero dell’illuminazione, il Lam-rim dimostra
anche come tutti gli insegnamenti si integrino – come il Dharma includa sia il
sutra, sentiero comune, sia il tantra, sentiero segreto. Anche se a volte tali
insegnamenti possono apparire contraddittori, essi sono senza contraddizioni se
praticati in modo appropriato in un processo graduale. Tutti sono importanti
come guide sul sentiero verso l’illuminazione. Alcune persone pensano di poter
intraprendere pratiche esoteriche senza comprendere gli insegnamenti buddhisti
di base. Senza la fondazione appropriata del sentiero comune, non si può fare
alcun progresso nel tantra. Senza il desiderio compassionevole di raggiungere
l’illuminazione per poter guidare ognuno alla liberazione, il tantra diviene
soltanto una sorta di recitazione di mantra; la pratica tantrica si limiterà a un
suonar di strumenti come cimbali e trombe d’osso femorale e a far molto
rumore. I Sutra della Perfetta Saggezza dicono che la pratica della generosità,
dell’etica, della pazienza, dell’energia, della concentrazione e della saggezza
sono il solo sentiero, sia sutra sia tantra, che tutti i Buddha del passato percorsero
per giungere all’illuminazione. Se si tralasciano gli aspetti comuni del sentiero,
si commette un grande sbaglio.
Il grande maestro Tsong-kha-pa, autore dei Gradi del sentiero
dell’illuminazione, consiglia ai praticanti di ricercare la guida di un maestro
spirituale esperto e di cercare il più possibile di percepire tutti gli insegnamenti
del Buddha come appropriati e determinanti per la pratica. Quegli aspetti che
non possono immediatamente essere messi in pratica, non vanno abbandonati.
Chiedetevi invece interiormente se sarete capaci di metterli in pratica nel futuro.
Se sarete capaci di fare ciò, allora la vostra concezione degli insegnamenti del
Buddha sarà molto profonda.
L’intero canone buddhista è necessario e importante per il praticante. Quando
si dipinge un thangka (un rotolo dipinto nel buddhismo tibetano), l’artista deve
valutare il ricorso ai diversi tipi di pittura. Ma ciò non è abbastanza; lui o lei
dovrà sapere quando ciascun tipo di pittura è richiesto: dapprima si traccia il
contorno e poi si aggiungono i colori. È molto importante conoscere la sequenza
giusta. Analogamente, dobbiamo conoscere l’importanza di tutti gli
insegnamenti del Buddha oltre a sapere come e quando vanno praticati. Quando
questi fattori sono presenti, tutte le oscurità e difficoltà associate alla vostra
pratica saranno naturalmente eliminate.
Quando parlo della pratica del Dharma, non voglio dire che si debba
abbandonare ogni cosa e andare in un ritiro isolato. Voglio semplicemente dire
che si dovrebbe integrare la nostra vita quotidiana con un livello superiore di
consapevolezza. Che si stia mangiando o dormendo o facendo affari, dovremmo
costantemente verificare le nostre intenzioni, controllare corpo, linguaggio,
mente e azioni, per accorgerci anche della più sottile negatività. Cercate di
accordare le vostre attività quotidiane con una motivazione compassionevole.
Infondete i vostri atti di corpo, parola e mente con la saggezza che si ottiene
dall’udire gli insegnamenti e dalla pratica. Ma se qualcuno è capace di
abbandonare tutto e di dedicare la propria vita alla pratica, quella persona è
degna di ammirazione.
Lo studio è come la luce che illumina la tenebra dell’ignoranza, e la
conoscenza che ne risulta è il supremo possesso, perché non potrà esserci tolto
neanche dal più abile dei ladri. Lo studio è l’arma che elimina quel nemico che è
l’ignoranza. È anche il miglior amico che ci guida attraverso tutti i nostri
momenti difficili. Ci guadagniamo amici con un cuore gentile, non ingannando
le persone. Gli amici che ci facciamo quando abbiamo potere, posizione e
influenza sono amicizie che si fondano soltanto su potere, influenza e posizione
che abbiamo. Quando ci imbattiamo nella sventura e perdiamo la nostra
ricchezza, questi cosiddetti amici ci abbandonano. L’amico infallibile è lo studio
degli insegnamenti. Questa è una medicina che non ha effetti collaterali o
pericoli. La conoscenza è come il grande esercito che ci aiuterà a schiacciare le
forze dei nostri errori. Con quella conoscenza ci possiamo proteggere dal
commettere azioni non virtuose. La fama, la posizione e la ricchezza possono
essere il risultato delle proprie conoscenze; ma soltanto lo studio e la pratica
dedicati a liberarsi dalle illusioni recano la durevole felicità dell’illuminazione.
Senza la conoscenza degli insegnamenti, non seguiranno realizzazioni. Gli
insegnamenti che riceviamo sono intesi per essere vissuti. Quando addestriamo
alla corsa un cavallo, dovremmo farlo sullo stesso tipo di pista su cui avrà luogo
la corsa. Analogamente, gli argomenti che avete studiato sono quegli
insegnamenti stessi che dovreste mettere in pratica. Tsong-kha-pa dice che se
siete capaci di percepire i sutra profondi e vasti come consigli personali, allora
non avrete alcuna difficoltà a percepire i tantra e i loro commenti come consigli
personali da essere messi in pratica nel processo graduale del sentiero che
conduce all’illuminazione. Ciò ci protegge dal malinteso che alcune serie di
insegnamenti non siano necessari alla pratica e alcune serie di insegnamenti
siano necessari soltanto per il risultato scolastico.
Inchinarsi e giungere le mani prima di ricevere gli insegnamenti è un modo di
contrastare l’orgoglio e la presunzione. A volte vedete persone che sanno meno
del Dharma di quanto sapete voi, ma che hanno un maggior senso di umiltà e
rispetto. Grazie alla vostra conoscenza del Dharma, dovreste essere più umili
delle altre persone. Per cui, quando studiate, cercate di tenere sotto controllo il
vostro stato di mente e di integrare nel vostro modo di pensare ciò che studiate.
Se vi impegnate in ciò, raggiungerete uno stadio in cui potrete vedere un qualche
tipo di effetto, un qualche cambiamento o impatto entro la vostra mente. E
questo è un indizio che state facendo progressi nella vostra pratica e che lo scopo
dello studio è raggiunto.
Vincere le illusioni è il lavoro di un’intera vita. Se siamo capaci di impegnarci
nella pratica in modo costante, nel corso dei mesi e degli anni riusciremo a
vedere una trasformazione della mente. Ma se cerchiamo una realizzazione
istantanea o un modo istantaneo di domare pensieri ed emozioni, allora
diventeremo scoraggiati e depressi. Lo yogi Milarepa, che visse nell’XI secolo e
fu uno dei più grandi maestri della storia tibetana, passò anni vivendo come un
animale selvatico e sopportando grandi stenti per essere capace di compiere alte
realizzazioni. Se siamo capaci di dedicare in tal modo tempo ed energia, allora
saremo capaci di vedere più rapidamente il beneficio che risulta dalla nostra
pratica.
Non appena siamo convinti dell’efficacia degli insegnamenti, è importante che
si arrivi anche a essere convinti del valore di dedicarsi subito alla pratica. Per
progredire lungo il sentiero, è importante raggiungere la giusta comprensione del
sentiero stesso, e ciò si può ottenere ascoltando l’insegnamento.
Sviluppate quindi una motivazione per raggiungere lo stato di completa
illuminazione per il bene di tutti gli altri esseri senzienti, e con quella
motivazione ascoltate o leggete questo insegnamento.
Quando qualcuno insegna il Dharma, lui o lei sta servendo da messaggero dei
Buddha. Indipendentemente dalla realizzazione effettiva del maestro, è
importante che l’ascoltatore consideri l’insegnante come inseparabile dal
Buddha. Gli ascoltatori non dovrebbero passare il tempo riflettendo sui difetti
del maestro. Nei racconti Jataka è detto che uno dovrebbe sedersi su un sedile
molto basso, e con una mente domata e con grande piacere guardare il viso del
maestro e bere il nettare delle parole di lui o lei, così come pazienti che ascoltino
con attenzione le parole del medico. Il Buddha ha detto che non si dovrebbe fare
affidamento sulla persona del maestro, ma affidarsi piuttosto all’insegnamento,
alla sostanza dell’insegnamento di lui o lei, al messaggio del Buddha. È molto
importante rispettare l’insegnante dal punto di vista della sacralità
dell’insegnamento stesso.
Mentre ascoltiamo, o leggiamo, insegnamenti, siamo come un vaso destinato a
contenere saggezza. Se il vaso è capovolto, anche se gli dei facessero piovere
nettare dall’alto, questo non farebbe che colare lungo i fianchi del vaso. Se il
recipiente è sporco, il nettare verrebbe guastato. Se il vaso ha un buco, il nettare
colerebbe fuori. Comunque ci si ponga di fronte a un insegnamento, se ci
distraiamo facilmente, siamo come un recipiente capovolto. Per quanto si stia
attenti, se il nostro atteggiamento è dominato da intenzioni negative, come per
esempio ascoltare l’insegnamento per poter dimostrare una superiore
intelligenza, siamo come un recipiente sporco. Infine, anche se fossimo liberi da
simili difetti, se non prendiamo a cuore gli insegnamenti, è come se ci entrassero
da un orecchio per uscire dall’altro. Una volta finito l’insegnamento saremo
totalmente cancellati, come se non riuscissimo a portarlo al di là della porta da
cui siamo usciti. Ecco perché è una buona idea prendere appunti o, al giorno
d’oggi, usare un registratore. La capacità di ritenere gli insegnamenti dipende
dalla forza della familiarità. In una discussione con Khun-nu Lama, egli
descrisse vividamente eventi della sua vita che avevano avuto luogo molto prima
che io nascessi. Io ora ho cinquantanove anni. Tendo a dimenticare persino i testi
che sto studiando al momento. Khun-nu Lama disse che non studiare
costantemente è dovuto al difetto di non avere l’energia gioiosa, e io credo che
ciò sia verissimo. A causa della mia mancanza di tempo, non leggo un testo
molte volte; lo leggo da cima a fondo una volta e poi mi faccio un’idea generale
di ciò di cui tratta. Dato che ho un’intelligenza relativamente buona, leggo testi
molto rapidamente ma non li leggo molte volte. Come dice il detto, la persona
con grande intelligenza è come un campo che brucia: il fuoco si estingue
rapidamente.
Se si legge per nove volte Gradi del sentiero dell’illuminazione di Tsong-khapa,
si avranno nove diverse comprensioni del testo. Se si legge un articolo di
giornale una volta, spesso non c’è nessuna ragione di rileggerlo; non ci piace, ci
annoia. Quando si leggono per la terza o quarta volta testi scritti con profondità
ed eloquenza, si rimane a volte sorpresi di scoprire che ci è sfuggito questo o
quel punto, anche se li si è letti molte volte prima. A volte si ottiene una nuova
comprensione o una prospettiva diversa; la costante familiarità è quindi il
metodo principale per non dimenticare. Coloro che desiderano raggiungere
l’onniscienza dovrebbero essere di fermo proposito, attenti e mentalmente umili,
motivati dal desiderio di aiutare gli altri esseri senzienti, fare piena attenzione
con la mente, guardare il maestro spirituale con gli occhi e ascoltarlo con le
orecchie.
È anche importante ascoltare gli insegnamenti col giusto atteggiamento. In
primo luogo, si dovrebbe identificare se stessi col paziente e l’insegnante col
medico. Il grande poeta indiano Shantideva dice che quando siamo afflitti da
comuni malattie dobbiamo seguire la parola del medico. Ma essendo noi afflitti
da centinaia di mali causati da illusioni come il desiderio e l’odio, è fuor di
questione che dovremmo seguire la parola di un insegnante. Le illusioni sono
molto insidiose. Quando è presente un’illusione come l’ira, perdiamo il
controllo. Le preoccupazioni dovute all’attaccamento ci impediscono di dormire
o di gustare un pasto. Così come il paziente tratterebbe come cose preziose le
medicine che gli ha dato il medico, badando di non sprecarle, alla stessa maniera
gli insegnamenti impartiti da un maestro spirituale dovrebbero essere conservati
come preziosi.
Perché il paziente possa liberarsi dalla malattia, lui o lei deve prendere la
medicina. Tenere accanto a sé una medicina in bottiglia non servirebbe.
Analogamente, per liberare la nostra mente dalla malattia cronica delle illusioni,
dobbiamo mettere in pratica gli insegnamenti, ed è solo attraverso la pratica che
riusciremo a liberarci dalla malattia dell’illusione. Anche nel breve termine,
maggiore sarà la forza della vostra pazienza, minore sarà la vostra ira e maggiore
sarà la forza del rispetto per gli altri. Man mano che diminuiscono in voi
orgoglio e presunzione, l’influenza delle illusioni lentamente decresce. Tsongkha-
pa dice che chi soffre di lebbra cronica non può liberarsene prendendo la
medicina una o due volte; la deve prendere continuamente. Allo stesso modo, le
nostre menti sono state preda costante delle illusioni per tutto il tempo
interminato. Come possiamo aspettarci di liberarle dedicandoci alla pratica
soltanto una o due volte? Come possiamo aspettarci di curare una malattia
leggendo soltanto un testo medico?
Nel Buddhismo tibetano ci sono quattro scuole: Nyingma, Shakya, Gelug e
Kagyu. È un grande errore sostenere che una di queste scuole sia superiore alle
altre. Seguono tutte lo stesso maestro, il Buddha Shakyamuni; tutte hanno fuso
insieme i sistemi dei sutra e dei tantra. Io cerco di coltivare fede e ammirazione
per tutte e quattro le scuole. E non lo faccio soltanto come gesto diplomatico, ma
per una forte convinzione. E si addice anche alla mia posizione di Dalai Lama
conoscere sugli insegnamenti delle quattro scuole abbastanza da poter offrire
consiglio a coloro che si rivolgono a me. Altrimenti, sono come una madre senza
braccia che vede annegare il figlio. C’era un meditatore Nyingma che una volta
venne e mi chiese riguardo una certa pratica che io non conoscevo bene. Riuscii
a inviarlo da un grande maestro che sapeva come rispondere alla sua domanda,
ma provai un senso di depressione all’idea che egli era venuto con sincerità a
cercare un insegnamento da me e io non ero stato capace di esaudire il suo
desiderio. Una cosa è se il desiderio di qualcun altro è al di là delle nostre
capacità di esaudirlo, ma fintanto che è nelle nostre capacità, è molto importante
venire incontro ai bisogni spirituali di più esseri senzienti possibili. Dobbiamo
studiare tutti gli aspetti degli insegnamenti e sviluppare ammirazione per essi.
Non dobbiamo nemmeno considerare il Buddhismo tibetano superiore ad altre
forme di Buddhismo. In Thailandia, Birmania e Sri Lanka i monaci hanno una
vera dedizione per la pratica della disciplina monastica, e, a differenza dei
monaci tibetani, mantengono ancora il costume di mendicare per i propri pasti,
come fu praticato 2500 anni fa dal Buddha e dai suoi discepoli. In Thailandia, mi
unii a un gruppo di monaci che facevano la questua. Era una giornata calda e
assolata, e poiché la tradizione è di andare scalzi, avevo i piedi che mi
bruciavano. A parte ciò, era edificante vedere la pratica di quei monaci Thai.
Di questi tempi molti vedono soltanto negatività nella pratica di una tradizione
spirituale o religione. Vedono soltanto come le istituzioni religiose sfruttino le
masse e si impossessino dei loro beni. Tuttavia, gli errori che vedono non sono
errori delle tradizioni stesse, ma delle persone che si proclamano seguaci di tali
tradizioni, come membri di monasteri o chiese che usano pretesti spirituali per
arricchire se stessi a spese degli altri aderenti. Se i praticanti spirituali sono essi
stessi negligenti, ciò si riflette su chiunque sia coinvolto in quella pratica. I
tentativi di correggere errori istituzionalizzati sono spesso male interpretati come
attacchi alla tradizione nel suo insieme. Molti concludono che la religione è
dannosa e non può aiutarli. Respingono ogni forma di fede. Altri sono del tutto
indifferenti alla pratica spirituale e sono soddisfatti dei loro modi di vita
mondani. Posseggono conforti materiali e fisici e non sono né a favore né contro
la religione. Eppure tutti sono uguali nel senso che hanno il desiderio istintivo di
ottenere la felicità e di evitare la sofferenza.
Se abbandoniamo la pratica spirituale, o in questo caso il Buddhismo, non
prestiamo più fede alla legge del karma. Cesseremo allora di percepire le nostre
sventure come conseguenza delle passate azioni negative. Ci appariranno forse
come manifestazioni di errori impliciti nella società o nella comunità o come
conseguenze dell’azione di un amico. Ci metteremo quindi a dar la colpa agli
altri per cose che a ben vedere sono chiaramente colpa nostra. E dando la colpa
agli altri ci rafforzeremo nei nostri atteggiamenti egocentrici, come
l’attaccamento e l’odio. Come conseguenza di questi atteggiamenti illusori,
diveniamo attaccati ai nostri possessi e ossessionati dalla diffidenza o persino
dalla paranoia. I comunisti cinesi abbandonarono la religione in favore di ciò che
loro concepivano come liberazione. Si chiamarono l’un l’altro compagno e nel
passato fecero grandi sacrifici nella lotta per la liberazione del loro paese. Ma
dopo aver conquistato il potere, crearono rivalità politiche, e ora spesso si
combattono gli uni con gli altri. Uno cerca di approfittarsi dell’altro, e finisce per
distruggere l’altro. Sebbene il socialismo abbia per nobile scopo di operare per il
benessere comune delle masse, i mezzi per raggiungere quel fine sono entrati in
conflitto con la comunità, e l’atteggiamento del popolo è diventato conflittuale.
In tale forma, il comunismo è divenuto così distruttivo che tutta l’energia del
governo è più diretta verso la repressione che verso la liberazione.
In contrasto con i comunisti, molti grandi praticanti hanno camminato per il
sentiero buddhista e condotto la propria vita in base all’amore e alla
compassione. Con tali motivazioni, la vostra intenzione principale sarà quella di
operare per il beneficio degli esseri senzienti, a favore dei quali voi cercate di
coltivare stati di mente positivi. Anche se al danno fatto dai comunisti cinesi in
Tibet e in Cina si fosse accompagnato un programma positivo altrettanto esteso,
dubito che essi sarebbero stati in grado di dare un gran contributo al
miglioramento della società, poiché manca loro la motivazione della grande
compassione. Se consideriamo la vita stessa di Karl Marx e le origini reali del
marxismo, scopriamo che Marx dovette sopportare grandi sofferenze nel corso
della vita e che sosteneva la necessità di una lotta costante per rovesciare la
classe borghese. La sua concezione si fondava sul conflitto. A causa di quel
motivo primario, l’intero movimento comunista ha fallito. Se il motivo primario
fosse stato basato sulla compassione e sull’altruismo, allora le cose sarebbero
state assai diverse.
Molti che sono indifferenti a qualsiasi forma di pratica spirituale godono di
benessere materiale in alcuni paesi sviluppati, ma ciò nonostante sono del tutto
insoddisfatti. Pur essendo benestanti non sono contenti. Soffrono dell’ansia di
voler di più, per cui anche essendo materialmente ricchi, sono mentalmente
poveri. E quando scoprono di non poter ottenere tutto quello che desiderano,
iniziano i veri guai. Si deprimono e l’angoscia si insinua. Ho parlato con alcuni
amici miei che sono molto ricchi, ma a causa della loro concezione materiale
della vita, sono assorti nei loro affari e non trovano spazio per una pratica, che
potrebbe aiutarli a raggiungere una visione più ampia. Nel mentre, perdono del
tutto il sogno della felicità, al quale avrebbe dovuto provvedere il denaro.
Nella pratica buddhista, invece di evitare le sofferenze, deliberatamente le
visualizziamo: le sofferenze della nascita, le sofferenze dell’invecchiamento, le
sofferenze delle oscillazioni di condizione sociale, le sofferenze dell’incertezza
che si prova in questa vita, le sofferenze della morte. Cerchiamo deliberatamente
di pensarle, così che quando dobbiamo affrontarle davvero, siamo preparati.
Quando incontreremo la morte, ci accorgeremo che il nostro momento è giunto.
Ciò non significa che non si debba proteggere il corpo. Quando siamo malati,
prendiamo le medicine e cerchiamo di evitare la morte. Ma se la morte è
inevitabile, allora il buddhista sarà preparato. Mettiamo per il momento da parte
la questione della vita dopo la morte, della liberazione, o dello stato onnisciente.
Anche nel corso di questa vita, il pensiero rivolto al Dharma e la credenza nel
Dharma ha benefici pratici. In Tibet, anche se i Cinesi hanno inflitto sistematiche
distruzioni e torture, il popolo non ha ancora perso la speranza e la
determinazione. Io credo che ciò sia dovuto alla tradizione buddhista.
Sebbene la distruzione del Buddhismo non si sia protratta sotto il dominio
cinese così a lungo come sotto Lang-dar-ma nel IX secolo, la vastità della
distruzione è molto maggiore. Quando Lang-dar-ma ebbe distrutto il Dharma,
giunse in Tibet Atisha e restaurò l’intera pratica del Buddhismo. Ora, se ne sia
capaci o meno, ricade su noi tutti la responsabilità di restaurare ciò che è stato
sistematicamente distrutto dai Cinesi. Il Buddhismo è un tesoro destinato al
mondo intero. Insegnarlo e ascoltarne l’insegnamento è un contributo alla
ricchezza dell’umanità. Ci potranno essere molti punti che non sarete in grado di
praticare immediatamente, ma teneteveli nel cuore così che sarete capaci di
praticarli l’anno prossimo o tra cinque o dieci anni, purché gli insegnamenti non
siano dimenticati.
Sebbene noi esuli tibetani siamo colpiti dalla tragedia di aver perduto il nostro
paese, restiamo in genere liberi da ostacoli nella pratica del Dharma. In
qualunque paese si risieda, abbiamo accesso agli insegnamenti del Buddha
tramite insegnanti esuli, e sappiamo come creare le condizioni favorevoli alla
meditazione. È quel che i Tibetani hanno continuato a fare almeno dall’VIII
secolo. Coloro che sono rimasti in Tibet dopo l’invasione cinese del 1959 hanno
dovuto subire grande sofferenza fisica e mentale. I monasteri sono stati svuotati,
grandi insegnanti imprigionati, e la pratica del Buddhismo è divenuta punibile
con la prigione o persino la morte.
Dobbiamo usare tutte le opportunità di praticare la verità, di migliorare noi
stessi, invece di aspettare un tempo in cui saremo meno indaffarati. Come ha
detto Gungthang Rimpoche, le attività di questo mondo sono come le
increspature su uno stagno: una sparisce l’altra emerge; e senza fine. Le attività
di questo mondo non cessano mai sino al momento della morte; dovremmo
sforzarci di trovare il tempo nell’arco della nostra vita quotidiana per praticare il
Dharma. In questa congiuntura – in cui abbiamo ottenuto la preziosa forma
umana e abbiamo incontrato il Dharma e abbiamo una certa fiducia in esso – se
non siamo capaci di mettere in pratica il Dharma, sarà difficile che si riesca a
intraprenderne la pratica in vite future, quando non avremo simili condizioni.
Ora che abbiamo incontrato un sistema così profondo, in cui l’intero metodo per
ottenere lo stato di illuminazione è accessibile, sarebbe molto triste se non
cercassimo di far sì che il Dharma abbia qualche influsso sulla nostra vita.