Dicembre 3, 2024

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Fisiologia del dolore

Il dolore comincia con l’attivazione di un tipo speciale di recettori chiamati «nocicettori», specializzati nel suo rilevamento. Essi sono distribuiti in tutto il corpo e sono capaci di distinguere tra stimoli innocui e stimoli nocivi. Quando si attivano, inviano segnali al cervello mediante il midollo spinale, provocando il riflesso di evitamento, che permette di allontanare dalla fonte di dolore la parte del corpo interessata. Quando i recettori giungono al cervello si attiva l’esperienza del dolore come esperienza sensoriale soggettiva difficilmente quantificabile, di norma collegata a sensazioni negative come la tristezza o l’ansia. Attenzione però, il nostro cervello non considera solo la realtà tangibile ma anche quella virtuale, di conseguenza a volte possiamo sentire il dolore senza che nessun elemento fisico stia attivando le nostre sentinelle, i nocicettori. Il dolore è un processo fisiologico adattativo molto complesso che la natura e l’evoluzione hanno sviluppato e perfezionato per permetterci di vivere. A volte però, nonostante la perfezione del dispositivo, possiamo soffrire per cose che non sono mai successe e mai succederanno.

Una cosa è il dolore, un’altra è l’espressione della sofferenza

A volte confondiamo i due concetti. Facciamo un esempio concreto, un fatto che mi è successo tempo fa. Ero molto giovane e stavo tenendo un corso sulla comunicazione, quando all’improvviso, nel bel mezzo della lezione, si è alzata una persona e, interrompendomi, ha cominciato a parlare a voce alta, informandoci di avere un raffreddore terribile, che la stava facendo impazzire. Per tutta la lezione si è lamentata del mal di testa, del muco, del mal di gola e della pesantezza delle sue palpebre. Non so dire quanto soffrisse, ma evidentemente era il peggior raffreddore della sua vita. Seduta alla sua destra c’era una persona che stava palesemente molto male. Si distraeva spesso dalla lezione, portandosi la mano al viso e chiudendo gli occhi. Molto probabilmente aveva mal di denti. Non lo saprò mai, perché non si è lamentata nemmeno una volta. Non l’ha reso pubblico, non l’ha detto a nessuno. Ma non ho alcun dubbio, avendo analizzato il suo comportamento e l’espressione del suo viso, che stesse soffrendo molto. Ora, agli occhi della gente, chi soffriva di più? La persona che si lamentava ad alta voce o quella che viveva il suo dolore in modo discreto? Spesso siamo incapaci di controllare il dolore: ciò che si può controllare, però, è la sua espressione. A seconda di come esprimiamo la nostra sofferenza, la comunicheremo a chi ci è vicino. È una cosa normale, e anche positiva, dato che in questo modo risvegliamo l’empatia di chi potrebbe aiutarci a lenire il dolore. Ma se proviamo a farci un’idea di quanto una persona stia soffrendo in base al modo in cui lo manifesta, è molto probabile che ci sbaglieremo. Il dolore condiviso non fa meno male, così come quello urlato. L’unica cosa certa è che sappiamo poco, troppo poco, di come e quanto una persona possa soffrire.

Quando il dolore si fa perverso

Ci sono persone che hanno bisogno di essere continuamente al centro dell’attenzione e per riuscirci usano una delle strategie più antiche e semplici del mondo: fingono di stare male. Lo possiamo riscontrare dappertutto: dalla persona che ci chiede l’elemosina in metropolitana al calciatore che si butta per terra contorcendosi per il dolore, dal bambino che si aspetta una sgridata dai genitori alla coppia che non vuol fare l’amore per qualche malessere, e tante altre situazioni quotidiane. Il vittimismo si basa sull’espressione di un dolore, spesso falso, che esige considerazione. La vittima pretende da chi le sta vicino una sorta di risarcimento, in cambio di tanta sofferenza. È una condotta frequente, senza dubbio, ma non per questo meno tossica o crudele, in quanto gioca con le emozioni e le preoccupazioni di chi ci vuole bene. Quando chi amiamo soffre, noi soffriamo con lui, piangiamo e ci affliggiamo per il suo dolore. Senza che ce ne rendiamo conto, i nostri neuroni specchio e la nostra capacità empatica ci fanno stare male. Forse con un’intensità minore, forse in modo diverso o parziale, ma comunque da non sottovalutare.

Non preoccupatevi di essere felici, meglio imparare a essere forti.

Impariamo a convivere con le avversità senza evitarle, ignorarle o negarle. Alleniamo la nostra capacità di affrontare le difficoltà e di rimetterci in sesto. Se trasformerete le avversità in una sfida, sarà più facile affrontarle e gestirle. Non tutti soffriamo allo stesso modo. Non è detto che chi piange di più soffra di più; non confondiamo il dolore con l’espressione del dolore.

Navarro, Tomás. Kintsukuroi. L’arte giapponese di curare le ferite dell’anima (pp.29-30). Giunti. Edizione del Kindle.