Settembre 8, 2024

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by ilcortomaltese©

Amor, ch’a nullo amato amar perdona

Questo verso è tratto dall’Inferno di Dante Alighieri, precisamente dal Canto V, dove si trova il cerchio infernale dedicato alla lussuria. “Amor, ch’a nullo amato amar perdona”, può essere tradotta come “Amore, che a nessuno amato perdona di amare”.

In questo contesto, Dante sta riflettendo sull’idea che l’amore può essere un’esperienza intensa e talvolta dolorosa, soprattutto quando non è corrisposto o quando viene interrotto da circostanze esterne. L’idea che l’amore non perdoni a nessuno di amare potrebbe suggerire che l’amore stesso è un sentimento che agisce indipendentemente dalla volontà delle persone coinvolte, e che può portare gioia o sofferenza a seconda delle circostanze.

Nel contesto dei tempi moderni, questa frase potrebbe essere interpretata come un richiamo alla natura potente e spesso imprevedibile dell’amore nelle relazioni umane. Può suggerire che l’amore è un’esperienza universale che può influenzare profondamente la vita delle persone, portando gioia, felicità, ma anche dolore e sofferenza.

Inoltre, potrebbe essere interpretato come un monito contro l’egoismo nell’amore, poiché l’amore vero richiede anche la capacità di amare senza aspettarsi necessariamente qualcosa in cambio. Può essere un invito a comprendere e accettare la complessità e l’imprevedibilità dell’amore, e ad affrontare le relazioni con umiltà, compassione e generosità.

Contestualizzazione e interpretazione

Nel canto V dell’Inferno Dante entra nel secondo cerchio dove incontra le anime dei lussuriosi, che,
come in vita non hanno saputo tenere a freno le proprie passioni, nella dimensione infernale per
contrappasso per analogia sono travolti da un’inarrestabile tempesta. Dante è incuriosito da du
anime che procedono congiunte e desidera fortemente parlare con loro per poter conoscere la loro
storia. I due dannati sono gli amanti Paolo Malatesta e Francesca da Polenta e sono i primi personaggi
con cui il sommo poeta scambia un approfondito dialogo e di cui traccia un accurato profilo
introspettivo. Francesca è originaria di Ravenna e si sposa con il signore di Rimini, fratello di Paolo,
Gianciotto Malatesta. I due cognati si innamorano e intraprendono una relazione adultera, colti in
flagrante da Gianciotto, vengono uccisi.
Dante, profondamente turbato, si ammutolisce e colpito dal desiderio amoroso che condusse i due
dannati alla perdizione interroga Francesca sull’inizio della loro relazione adulterina. La donna,
addolorata dal ricordo, narra di come un giorno, a causa della lettura del libro di Lancillotto e Ginevra,
lei e Paolo si baciarono, seguendo l’esempio dei due amanti. Mentre Francesca racconta, Paolo tace e
piange. Dante, profondamente sopraffatto, sviene.
Francesca spiega la nascita del suo sentimento attraverso le famosissime terzine che iniziano con la
parola “amor”.
I«Amor ch’a nullo amato amar perdona» è stato oggetto di varie interpretazioni.
La più comune è che l’Amore non «perdona» nel senso di “non risparmia” a «nullo amato» a nessuna
persona che riceve Amore di «amare», ossia di non riamare a sua volta. Il vero responsabile della
catastrofe esistenziale dei due amanti è Eros, che, secondo lo stilnovista Guido Guinizelli, nidifica nei
cuori gentili. Al suo potere, nessun uomo può opporre resistenza.
Un’altra esegesi proposta è quella secondo la quale l’amore vieta e non consente a nessuno di amare
chi è già obbligato ad un vincolo amoroso. Secondo questa tesi a quel ‘perdona’ è sottointesa una
negazione ‘non’, che di conseguenza non esprime un obbligo a ricambiare sentimenti altrui, ma al
contrario lo vieta. Nel caso di Francesca il vincolo a cui era obbligata non era di semplice fidanzamento,
ma di vero e proprio matrimonio, sacro vincolo che è stato infranto dal bacio con Paolo. La frase di
Dante avrebbe quindi la funzione di ribadire il divieto della trasgressione del nono comandamento che
impone all’uomo di non separare ciò che Dio ha unito.
Francesca parla d’amore in termini stilnovistici. L’innamoramento viene presentato come un teorema,
come una condizione fatale, come se la volontà di amare fosse superiore al libero arbitrio.
Dante invece è convinto che il libero arbitrio dell’uomo non si sospenda mai e che grazie alla forza di
volontà e alla ragione si possano sempre dominare le passioni. Dante non intende giustificare in alcun
modo il peccato dei due amanti, ma piuttosto vuole mettere in guardia tutti i lettori dai rischi insiti
nella letteratura di argomento amoroso. La pietà di Dante non è generica compassione né
riabilitazione del loro amore clandestino, ma è il turbamento angoscioso di uno scrittore che prende
coscienza della pericolosità della poesia amorosa da lui prodotta in passato.
Interpretazione da parte di letterati moderni
L’amore adulterino che condanna le due anime all’Inferno è oggetto alquanto discusso nella
letteratura. Le maggiori espressioni a riguardo sono di Ugo Foscolo e di Francesco Saverio De Sanctis,
il quale è stato uno scrittore. La concezione della figura di Francesca e dell’influenza di amore sulla
donna sono state radicalmente modificate rispetto all’ideologia iniziale di Dante. L’idea di amore
inteso come fatalità, o potenza a cui è inutile opporsi, richiamata da Foscolo come scusante per
Francesca, sarebbe fermamente respinta da Dante in quanto per il poeta l’unico e assoluto
fondamento della vita terrena e dell’oltre mondo è il libero arbitrio.
Natalino Sapegno discute e confronta le sopracitate opinioni con quella di Dante. Ciò che pensa Ugo
Foscolo riguardo il V canto di Dante può essere riassunto con la seguente frase: “La colpa è purificata
dall’ardore della passione, e la verecondia abbellisce la confessione della libidine; e in tutti que’ versi
la compassione pare unica musa”; con questo il poeta vuole intendere che l’ardore e la passione
purificano la colpa e nei confronti dei due amanti, seppur adulteri, non si può che provare
compassione. Il critico letterario Francesco De Sanctis, sulle orme del Foscolo, il quale aveva già tratto
ispirazione da Pierre Louis Giunguine: dalla Historie litteraire d’Italie, considera Francesca da Rimini
un’eroina e l’amore un sentimento che non può essere soffocato ma compreso nella sua genuinità.
Francesca confessa con questa celebre frase che amava solo perché era riamata, e le era impossibile
non amare a sua volta, come sostenuto da Platone, nel Simposio, Eros è un demone; perciò, non è
possibile per l’uomo non innamorarsi. De Sanctis afferma che Francesca rappresenta la vera donna, a
differenza di Beatrice che rappresenta una virtù; Francesca è un’umana che continua ad amare come
ha fatto in vita anche nel mondo degli inferi. Il peccato, secondo il critico, non avrà mai fine in quanto
l’anima stessa della donna racchiude al suo interno l’amore e il peccato stesso in ugual misura; essi
coesistono e di conseguenza gli è impossibile annientarsi a vicenda.
Esegesi di Amor, ch’a nullo amato amar perdona
Amor: è il soggetto della frase. Personificazione del sentimento amoroso, inteso come spirito di origine
divina, che signoreggia l’animo umano. L’uso personificato della parola “amore” viene ripreso da poeti
contemporanei e successivi a Dante. Francesco Petrarca adopera questa accezione di “Amore”
molteplici volte nei suoi componimenti poetici, in particolare un esempio è da ritrovarsi nel
Canzoniere, dove nel sonetto 234, O cameretta che già fosti un porto, al verso 7 cita: “Ti bagna Amor,
con quelle mani uberne”.
Un esempio invece di un autore successivo a Dante è ad esempio Lorenzo de’ Medici, il quale nei
“Canti carnascialeschi”, in particolare nel “Trionfo di Bacco e Arianna” al verso 23 utilizza la suddetta
accezione:” Non può fare a Amor riparo, ne non gente rozze e ingrate”.
ch: che, ovvero il quale, si riferisce ad Amor: il quale amor.
a nullo: nullo deriva dal latino nullus,a,um. Assume qui la funzione di aggettivo indefinito, usato
principalmente in ambito letterario, anteposto al nome, con il significato di nessuno, alcuno, neppure
uno e indica la negazione assoluta o l’esclusione da un’azione determinata, conferendo valore
negativo alla frase. Qui nasce una doppia interpretazione poiché “a nullo”, complemento d’agente, in
latino significa “da nessuno”, mentre se si considera solo “nullo”, in latino nel caso dativo, quindi
complemento di termine, la traduzione diventa “a nessuno”. Quest’ultima è la più utilizzata a fine di
interpretare tale verso. Nell’italiano moderno se non intenso in ambito letterario, “nullo” solitamente
indica l’impossibilità di rappresentare un valore concreto. Nel corso dei secoli però l’accezione
utilizzata da Dante non è andata perduta. Francesco Petrarca nel Canzoniere 101, Lasso, ben so che
dolorose prede, lo utilizza all’inizio del sonetto: “Di noi fa quella ch’a nullo huom perdona”. Come
figura più moderna ad aver utilizzato “nullo” è presente Ugo Foscolo. Ugo Foscolo fu un poeta, uno
scrittore e uno dei principali rappresentati del neoclassicismo e del preromanticismo, il quale nella
poesia Dei Sepolcri, ai versi 192-193 esordisce con: “Poi che nullo vivente aspetto gli molcea la cura”.
Amato: participio passato del verbo amare. Si riferisce a “nullo”, per cui nel senso comune “a nullo
amato” significa “a nessuno che è amato”.
Amar perdona: perdona l’amare. L’accezione qui conferita a “perdona” deriva dal latino medioevale
diffuso dalla Chiesa in luogo di “condonare”, “risparmiare” a qualcuno o anche a se stesso
un’esperienza sgradevole, un’umiliazione, una sofferenza, una condanna. In questa frase il verbo è
seguito da una negazione quindi il significato poi generale assumerà la connotazione negativa. Il
significato che il verbo assume generalmente nell’italiano moderno è invece quello di “perdonare”
con un senso di considerare con indulgenza rinunciando alla vendetta. L’utilizzo che ne fa però Dante
non è assolutamente andato perduto in quanto Policarco Petrocchi, a cui si deve la pubblicazione di
uno dei primi vocabolari della lingua italiana, lo utilizza nella frase: “Non perdonava a sé nessuna
pena”. Lo stesso Leopardi utilizza “perdona”, al participio passato, in un suo componimento, “Nè le
infermità mi hanno perdonato”.
Il noto poeta fiorentino Luigi Pulci, che creò con Lorenzo de Medici un rapporto di viva amicizia e trovò
in lui un compagno di svaghi e di esperienze poetiche negli anni giovanili, scrisse: “Perché Amor mal
volentier perdona che è non sia alfin sempre amato chi ama”. In questa proposizione si ritrovano tutte
le caratteristiche accezioni sopra citate. La personificazione di Amore, come soggetto della frase, ha il
compito di “non perdonare”, di “non permettere” che alla fine, alfin, chi ama non sia amato a sua
volta, parafrasando così il celebre verso di Dante Alighieri mantenendo il medesimo significato; quindi,
di non risparmiare chi è amato a non riamare a sua volta.